Migrazioni 1 – Parte II

La colonia arrivava due volte l’anno: al principio dell’estate le meduse si spostavano verso le montagne del Bentu; alla fine dell’autunno ritornavano a sud. Nessuno a Mem (eccetto forse i capi) sapeva di preciso da dove provenissero e dove fossero dirette, visto che anche gli estrattori più coraggiosi osavano seguire la colonia solo fino ai confini della Prefettura; né si conosceva la ragione di questi spostamenti periodici, puntuali e immancabili come l’alternarsi delle stagioni. Forse le altre città delle Pianure Orientali, Kelidia o Tripoli, erano più informate al riguardo, ma ai comuni cittadini di Mem, allora come oggi, non era consentito mettersi in contatto con la gente di fuori, mentre i pezzi grossi del livello 404, i Commissari e il Prefetto Cristoffersen, non riferivano certo a noi sottoposti cosa raccontavano loro i colleghi delle altre città.
All’arrivo dell’estate, l’anno che ci trasferimmo nel cubicolo con la finestra, Noemi e io ci mettemmo in attesa. Quando eravamo a casa, l’occhio s’indirizzava sempre più spesso alla finestra del soggiorno. Cercavamo qualche segno di cambiamento nel mutevole tessuto del cielo, un preannuncio di quello che stava per arrivare, la conferma che la storia della colonia migrante non fosse solo una favola. Noemi mi domandò più volte se credessi davvero all’esistenza delle meduse. Certo che ci credo, rispondevo per convincere soprattutto me stesso. Ma ero scettico. E anche se speravo si trattasse solo di un’elaborata truffa architettata dalle ditte di estrazione, e che niente di orribilmente strano e alieno cancellasse mai l’abituale panorama incastonato nella finestra, pregavo, allo stesso tempo, che le mie speranze restassero deluse. Noemi nutriva sentimenti meno ambigui. Che le migrazioni e le meduse fossero reali o meno, desiderava solo non farne mai esperienza.
L’attesa durò appena un paio di giorni. Poco prima di andare al lavoro, mentre studiavo l’ordine di servizio della giornata, alzai gli occhi alla tenue luce del mattino che filtrava dal soggiorno. Ero nell’angolo cucina, ma vedevo uno spicchio della finestra attraverso il divisorio, un rettangolo solitamente bianco a quell’ora del giorno. Ero così abituato a vederlo di quel colore, che in un primo momento i miei occhi restituirono l’immagine di sempre. Tornai al mio ordine di servizio. Ci volle ancora mezzo minuto perché la percezione reale scacciasse i sedimenti dell’abitudine. Alzai lo sguardo. Mi precipitai in soggiorno. Là c’era Noemi, scalza e in vestaglia, appena emersa dalle lenzuola. Doveva aver visto dall’angolo letto l’immagine che riempiva la finestra. Aveva i capelli arruffati e le palpebre rosse per la repentina fuga dal sonno. La bocca era aperta.
Ci sono le favole. E c’è la realtà. Ma i confini sono tracciati grossolanamente e le zone di frontiera non conoscono recinzioni invalicabili. I racconti di Dugal non si avvicinavano né meno lontanamente a quello che ora ci riempiva lo sguardo, perché questa cosa la vedevamo, era impressa nelle retine, incisa a fuoco dalle vampe elettrochimiche del cervello in quella materia indefinibile che chiamiamo memoria. Perché questa cosa non potevamo liquidarla come una bugia. Ci dovevamo credere. O ammettere di essere pazzi.
La finestra non era più bianca. Né inquadrava il solito, inamovibile scenario: le Pianure battute dal vento, il cielo di vari colori, le nuvole. La finestra era un arcobaleno, un arcobaleno in cammino. Rosa traslucidi, viola marezzati di azzurro, azzurri marezzati di verde, verdi marezzati d’oro, bianchi e grigi mutevoli e inafferrabili come la pelle delle nuvole fluttuavano entro i confini del telaio riverberando nel soggiorno, mentre altri colori, impossibili a definirsi perché visti da una certa angolazione apparivano in un modo, visti da un altro punto erano affatto diversi, percorrevano la massa traslucida della colonia come pesci a fior d’acqua. Un’onda rotolava lenta attraverso le Pianure, un’acqua multicolore scorreva con la pigra solennità dei fiumi (non ho mai visto un fiume, ma da quello che ho letto immagino che scorrano proprio come incedono le meduse), sommergendo la Piana di Mem fino all’orizzonte.
Le meduse!
Dugal mi aveva detto che le meduse erano alte all’incirca quanto Mem, vale a dire un miglio e duecento piedi. Alcune infatti erano alte quanto Mem; ma le più piccole, forse i cuccioli. Le meduse adulte erano alte leghe e leghe, riempivano tutto il cielo, tinteggiavano con la loro indescrivibile vernice la superficie del mondo. Alcuni individui erano grandi come montagne: la pioggia dei loro filamenti nascondeva le nuvole più basse. Altri, se fossero stati abbastanza solidi da generare un’ombra, avrebbero trasformato in tempesta i miti sereni estivi.
Creature di pura luce! Un intero mondo in cammino!
E non era finita: per quanto possa sembrare impossibile, in questa massa inenarrabile c’era qualcosa che emergeva. Era ancora lontano, quasi sulla linea dell’orizzonte, ma già si distingueva con una certa chiarezza. Una cupola più alta delle cupole più alte, un colore più assetato di luce dei colori che lo circondavano. Dugal mi aveva parlato di questa meraviglia tra le meraviglie. Mi aveva detto che l’avrei riconosciuto subito, che non potevo non vederlo. Aveva ragione. Non era una montagna, ma la luna stessa, divelta dalla sua sede stellare per mano di una divinità capricciosa e scagliata a rotolare sulla terra, sorretta da tentacoli di latte. Si muoveva al centro della colonia, protetto su ogni fianco da una corona di altissimi alfieri, molle ed esitante nell’incedere eppure carico allo stesso tempo di un’indiscutibile autorità: se la gelatina può assumere un’espressione, l’espressione del signore delle meduse era di volitiva sicurezza. Per quanto fosse ritenuto sconveniente anche solo accennare alle meduse, nella Mem d’anteguerra questa creatura abissale era invocata di continuo, con tanti nomi diversi: per gli estrattori e le sentinelle era Lufer, il portatore di luce, l’angelo caduto; per i bambini che non volevano dormire era Guba, il visitatore notturno; per i malati e i moribondi era Teleo, la voce che dà conforto, il riparatore; per i mangiatori d’essenza era Samaele, il veleno, la morte serena. In quel primo giorno non osai ripetere a Noemi o anche solo a me stesso nemmeno uno di questi nomi: mi limitai a conferire al signore delle meduse l’ulteriore titolo di padrone dei sogni, perché intuivo di non poter sognare nient’altro fino alla fine dei miei giorni.
Restammo a osservare lo spettacolo per oltre un’ora. A un certo punto tentai di abbracciare Noemi, per confortarla e per ricevere conforto. Lei mi respinse. S’avvicinò alla finestra. Appoggiò la mano al vetro, ma la ritrasse subito, come se avesse toccato non già la lastra trasparente, quanto le creature che trasparivano dalla lastra.
Il potere di quell’immagine era in ogni angolo del nostro corpo, non solo nelle retine. Era nello stomaco e dentro le orecchie, nei polsi e in fondo agli alvei dentali, nelle mani e nei polmoni. Un suono cupo, metallico, che rimbalzava dal cervello alla spina dorsale, in sincrono con il battito del cuore.
Noemi mi guardò sbalordita. «Lo vedi anche tu?» domandò. Con gli occhi m’implorava di rispondere no, stai solo sognando. Ma nei miei occhi c’erano solo le meduse e nessuno spazio per l’illusione che lei m’implorava di regalarle.
Nei giorni che seguirono provai la stessa frustrazione che provava un estrattore quando gli capitava qualcosa di strabiliante nel corso di un’uscita e moriva dalla voglia di raccontarlo a qualcuno e nessuno era disposto ad ascoltarlo. Quando cercai di descrivere la colonia ai miei amici o ai colleghi, ottenni solo risate nervose. Tutti si affrettavano a cambiare discorso. Un collega arrivò perfino a infuriarsi e a minacciare di far rapporto al capo ufficio.
Il terzo giorno dall’apparizione della colonia, andai al solito bar del livello 87. Trovai Dugal che parlava del raccolto con gli altri estrattori. Grazie al nuovo sistema delle funi, non c’era bisogno che uscissero tutti i giorni. Anche durante la migrazione si limitavano a controllare gli argani che tendevano le funi ogni tre o quattro giorni. Solo quando tutte le meduse avevano attraversato un certo lotto, i concessionari cominciavano la raccolta. La ditta per la quale lavorava Dugal aveva le concessioni molto a nord, e sarebbero occorsi ancora due mesi prima che si potesse cominciare a raccogliere. Per il momento, il lavoro di Dugal era sulle mappe e sui preventivi.
Ordinai una spuma d’essenza. Ma quando ricordai da dove si ricavava l’essenza, fui colto da un brivido e corressi la spuma con del vino sintetico.
Mi misi in ascolto. Non appena ebbi l’occasione, m’intromisi nel discorso e raccontai della finestra. Gli estrattori mi fissarono con un sorriso di scherno.
«Tanto entusiasmo per una sola migrazione?» fece Kidna, uno degli estrattori più esperti. «Sai quante migrazioni ho visto finora? Cinquantatré.»
Dugal si era messo a guardare un varietà alla televisione e non diceva niente. Quando mi avvicinai per raccontare anche a lui della colonia, si limitò a grugnire qualcosa di incomprensibile. Era irritato. Ora che avevo visto la colonia, temeva che non lo ascoltassi più con lo stesso entusiasmo di prima. Capii solo allora che aveva bisogno di me. Era circondato da gente che non aveva nessuna voglia di ascoltare le sue storie o che rifiutava di crederci. Io ero tutto il suo pubblico.
A casa non andava meglio. Noemi era molto scossa dall’esperienza. Odiava la finestra. Qualche giorno dopo la comparsa della colonia, comprò delle spesse tende scure. Voleva schermare anche il più fioco barlume proveniente da fuori. Il riverbero della colonia sulle pareti del soggiorno lo considerava un oltraggio.
La capivo, ma non potevo seguirla su quella via. La sua ossessione era non vedere; la mia vedere il più possibile. Non riuscivo a non guardare fuori. Quando tornavo a casa, la vista delle tende che coprivano la finestra mi toglieva il respiro e non riuscivo a resistere all’impulso di scostarle. Noemi entrava in casa, sobbalzava per la sorpresa e l’orrore, correva alla finestra e accostava di nuovo le tende. Non mi azzardavo a protestare, perché non potevo darle torto. Eppure, non appena lei usciva, il riverbero della colonia tornava a profanare il soggiorno. Non era per cattiveria o per litigare, solo non ero in grado di comportarmi diversamente. Noemi lo capiva, ma era esasperata. L’immagine delle meduse turbava i suoi sogni. Ogni notte la sentivo che gemeva e chiedeva aiuto dall’abisso del sonno.
Non riuscivo a non guardare fuori. La vista della colonia migrante divenne fin dal primo istante un elemento insostituibile del mio equilibrio interiore. Eppure, quando ne rimasi privo, dopo che l’ultima migrazione si fu compiuta, non mi ammalai, né provai altro che una blanda nostalgia. Non riuscivo a spiegarmi per quale ragione quell’immagine mi avesse ossessionato a tal segno. Ma l’ossessione c’era ancora, rintanata in un angolo: la prima volta che scostai le tende e tornai a guardare le Pianure battute dal vento e il cielo azzurro solcato dalle soffici nubi, provai una bruciante delusione. Lo sguardo era vuoto, senza la promessa delle meduse.

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