Il messaggero – Il risveglio, Parte I

Qualche giorno dopo, rincasando a tarda sera, scoprimmo un rettangolo d’oro a tremolare in mezzo alla via che costeggiava casa nostra. Raphael si fermò sul ciglio del rettangolo con la fronte corrucciata.
«La lampada è accesa» disse, accennando alla finestra illuminata che proiettava quell’oro.
Svoltato l’angolo, Franz si fermò a pochi passi dalla porta d’ingresso. Con la punta delle scarpe pestava una striscia rossa che si allungava fino all’altro lato della strada.
«E la porta è aperta.»
Restammo qualche istante a ponderare se fosse o meno il caso di fuggire. Qualunque sorpresa ci attendesse oltre la porta, di certo non sarebbe stata piacevole. Ma la fuga aveva poco senso: non esisteva luogo in tutta Kelidia dove la signora Blum non potesse arrivare, mentre fuori Kelidia… c’era davvero qualcosa oltre i confini della città? E poi cosa sarebbe stato di Jana?
Entrammo. Due ragazze con l’uniforme grigia della Guardia Civile, Beth e Iphigenia Linke, si godevano il tepore del nostro salotto. Sedute sulle beole del camino, rintuzzavano le fiamme con le molle, sprizzando nubi di scintille sugli alari. Sembravano mezze addormentate: non si accorsero del nostro arrivo, e forse avremmo anche potuto spaccar loro la testa con la scure che nascondevamo dietro la porta, se avessimo agito abbastanza in fretta. Ma non erano sole. La poltrona di nostro padre era fuori posto, rivolta verso l’uscio e non verso il camino, e ci sedeva sopra Serena Blum.
Stava aspettando noi. La sua faccia era al buio, perché dava le spalle al fuoco, ma potemmo vedere lo stesso i suoi occhi accendersi di una luce cattiva, non appena varcammo la soglia, la sua bocca piegarsi in un sorriso che non aveva niente di amichevole.
«Vi sembra questa l’ora di tornare?» disse in tono falsamente apprensivo. «Sarà già un’ora che è calato il buio!» Le sue mani si spostarono sui braccioli della poltrona, le dita affondarono nella tela che li rivestiva. «Se Jana scoprisse che la sera rincasate così tardi, vi trovereste in un bel guaio!»
Franz teneva le braccia conserte in segno di sfida: «Qualcosa mi dice che non passerà molto tempo, prima che lo scopra.»
«Cosa vuoi farci? Mai stata brava a mantenere i segreti. Non quanto voi almeno.»
«A cosa alludi?»
Serena prese aria dalle narici: «Sapete da quanto sono qui che aspetto, ragazzi? Due ore! Due intere ore! A un certo punto ero così annoiata, che pensavo di appiccare il fuoco alla casa, giusto per far passare un po’ di tempo. Provate allora a indovinare se sono dell’umore giusto per sopportare voi due che fate la parte degli ingenui.»
«Sai che novità!»
«Tu sei sempre arrabbiata.»
«Certo che sono sempre arrabbiata! Ogni giorno mi imbatto in qualche idiota che crede di potermi derubare e passarla liscia! Come faccio a non arrabbiarmi?»
Ci scambiammo uno sguardo. E se ancora nutrivamo una tenue speranza che Serena fosse a casa nostra per un motivo diverso da quello che più temevamo, ora vedemmo morire la speranza l’uno negli occhi dell’altro.
«Cosa sai?» domandò Franz. Cercava di capire se Serena fosse già arrivata a mastro Frings e al messaggero, ma soprattutto se la parola messaggero fosse già arrivata a Serena.
«Ne so abbastanza. E non appena mastro Leder avrà finito con Allart, saprò anche il resto.»
Trasalimmo: «Jana… cosa le hai fatto?»
«Ancora niente. Prima deve finire il turno. Non è giusto che mia madre ci rimetta ben tre ore di servizio, vi pare? Poi si vedrà.»
«Tieni fuori Jana da questa storia! Lei non sa niente.»
Serena si strinse nelle spalle: «Sei tu che hai parlato di lei per primo, Franz.»
«Perché so come ragioni. Credi che sia coinvolta, vero? E invece l’abbiamo tenuta all’oscuro, perché non volevamo che finisse nei guai. Se devi prendertela con qualcuno, prenditela con noi.»
«Molto generoso, tesoro. Ma inutile. Gli attori di questa commedia li conosco tutti… A proposito, è vero che Jana e Allart se la intendono? Insomma, che hanno una tresca? Quando Anni me l’ha detto, non riuscivo a crederci.»
«No che non è vero!»
«Allora come avete convinto mastro Frings a entrare nell’affare? L’idea di derubare mia madre deve averlo terrorizzato.»
Franz piegò la bocca in una smorfia di amarezza: «Ma ascolti quello che dici? Come se fossimo venuti a casa tua a rubare l’argenteria.»
«Avete fatto di peggio, per quanto mi riguarda.»
«E cosa? Abbiamo trovato questo strano tizio appeso a un pilastro e l’abbiamo salvato a rischio della vita. Cosa c’è di tanto sbagliato?»
«Niente, se la metti così.»
«Il tizio non apparteneva a tua madre. Anzi, non apparteneva a nessuno, perché era come se l’avessero gettato via. Starebbe ancora attaccato a quel pilastro, se non fosse per noi. Senza contare che l’abbiamo trovato a Sendero, non a Kelidia. A Sendero! Sendero è il regno dei disertori. E degli Storti. Tua madre non può avanzare pretese su quello che si trova a Sendero.»
«Ma ora il tizio non si trova più a Sendero, Franz. Si trova qui a Kelidia. E Kelidia è il regno di Margarete Blum. Voi dovreste saperlo meglio di chiunque altro. Ricordate quanti soldi le deve Jana? Ricordate che anche questa casa ve l’ha prestata mia madre, che vivete qui solo perché lei lo concede?»
Rivolse un cenno a Beth e Iphi, che reagirono prontamente. Si alzarono dal camino quasi di scatto, sfilarono le spranghe dalla cintura e mossero contro di noi con aria bellicosa.
«Il tizio che avete trovato è diventato proprietà di mia madre nel momento che ci avete messo sopra le mani» disse Serena, «perché voi stessi siete una sua proprietà!»
Beth e Iphigenia si fermarono a due passi da noi, le spranghe sollevate all’altezza del petto. Non attaccavano ancora. Con Serena dovevano aver concordato un doppio segnale: al primo minaccia, al secondo vie di fatto. Ma al secondo segnale mancava pochissimo. Per quanto parlasse con calma e a bassa voce, Serena era su tutte le furie. Se ancora esitava, era solo perché non poteva cancellare così di colpo l’affetto che la legava a noi. Forse sperava che le dessimo una spiegazione, che almeno implorassimo perdono. Ma la sua pazienza era al limite. Non appena avesse avuto la certezza che tramavamo davvero alle sue spalle, ci avrebbe fatto pestare a morte e si sarebbe subito dimenticata della nostra esistenza.
Era fatta così. Non considerava il suo lignaggio solo una questione di discendenza, di eredità, ma un destino. E avrebbe fatto di tutto, sarebbe passata sopra qualsiasi sentimento di amicizia e di amore, pur di realizzarlo. Questo non vuol dire che fingesse, quando ci strizzava le guance come se avessimo ancora tre anni, o che mirasse a chi sa cosa, quando ci accudiva come una sorella maggiore. Ma nella sua testa vigeva questa rigida gerarchia, cose che venivano prima e cose che venivano dopo, e non erano ammesse eccezioni.
Come potevamo dubitare dell’affetto di Serena? Fin dal giorno che nostra madre aveva cominciato a lavorare per la signora Blum, si era presa la briga di tenerci lontano dai guai, per quanto poteva, e di badare alla nostra istruzione. Non sappiamo perché. Aveva sempre tantissime incombenze e questioni delicate alle quali star dietro, eppure, quando avevamo nove o dieci anni, non passava giorno che non venisse a scovarci tra le baracche del lungargine, per dedicarci un po’ del suo tempo. Ci sistemavamo nel retro del Girasole, dove aveva una stanza tutta per sé, e trascorrevamo un paio di ore a mandare a mente filastrocche, a fare calcoli sul pallottoliere, a rinfrescare grammatica e storia. A fine lezione mangiavamo pane e olio di nocciole e a volte addirittura qualche scaglia di cioccolato.
Quando diventammo troppo grandi per queste cose, non smise di cercare la nostra compagnia. Di solito ci chiedeva di andare assieme ai mercati o di scambiare due parole mentre metteva ad asciugare le lenzuola. E se per caso voleva qualcosa di strano e sua madre le negava i soldi per comprarlo (alla signora Blum non andava a genio, per esempio, la passione di Serena per le banderuole segnavento), era a noi che chiedeva aiuto. E allora rubavamo, truffavamo, arrivavamo perfino a spendere dei soldi, pur di ottenere quello che lei desiderava. Tanto alla fine ci ricompensava ben oltre la misura.
Qualche volta addirittura con un bacio.
Eravamo innamorati. Serena l’aveva capito fin dall’inizio, ma la considerava una cotta da ragazzini, roba che sparisce con la pubertà. Noi invece eravamo serissimi. Non osavamo confessarlo né meno a noi stessi, né meno l’uno all’altro, ma sognavamo di sposarla, di vivere assieme a lei nella grande casa dei Sette Braghi, di avere libero accesso alle soffici grazie che i costosi vestiti di lana e cotone non riuscivano a nascondere. Il desiderio di baciarla, di toccarla, di stringerla era così febbrile e doloroso, che riusciva a tenerci l’uno lontano dall’altro anche per molte ore, quando non potevamo più tollerarne il sortilegio, e a rendere perfino piacevole questa lontananza. Nient’altro, né meno Anneke, né meno la maliziosa confusione che faceva a volte Anneke su chi di noi fosse Franz e chi Raphael, nient’altro è mai riuscito a dividerci così.
«Guarda che hai capito male, Serena» disse Raphael, distogliendo a fatica lo sguardo dagli sguardi minacciosi delle sorelle Linke.
Serena mandò un sospiro: ecco che comincia anche quest’altro, significava il sospiro. «È inutile che cerchi di spalleggiare tuo fratello, Raph. Nessuna bugia, per quanto ben articolata, può trarvi fuori dagli impicci.»
«Stammi a sentire. Il tizio…»
«Basta chiamarlo così, per favore.»
«…non volevamo tenerlo per noi.»
Serena tamburellò con le dita sul bracciolo della poltrona. «Perdonami se non ti credo, Raph, ma è passato un po’ di tempo, da quando lo avete salvato. Due giorni, da quando Anni vi ha sorpreso a bighellonare attorno al Girasole, e prima di allora credo altri cinque o sei… A proposito, ma vi siete rincitrulliti? Passare così vicino al covo del nemico quando si ha un segreto del genere da custodire? Non vi ho insegnato niente? In ogni caso è trascorsa una settimana, e in tutto questo tempo non avete parlato a nessuno del ritrovamento. Al contrario, siete rimasti buoni e zitti nel vostro angolino, fingendo che le cose andassero come sempre. A mio parere, uno che si comporta così ha tutta l’intenzione di tenersi stretto il tesoro.»
«Ma quell’uomo…»
«Uomo?» Serena fece una smorfia di disprezzo. «Comincio a essere stufa, ragazzi. Mettiamo le cose in chiaro. Non serve a niente che teniate a freno la lingua per paura di svelarmi qualcosa che ancora non so. I vostri giochetti servono solo a farmi saltare i nervi.»
«Non sto giocando! Come potrei, con queste due che ci guardano come se fossimo bistecche al sangue?»
«Uomo non significa niente, Raph. È una parola che non ha nessun valore, che non muove nessun mercato. Se il tizio che avete trovato a Sendero fosse un uomo, un uomo e basta, io ora non sarei qui, e voi non vi trovereste a un passo dalla stanza dei giochi di mastro Leder. Mi sono spiegata?»
«Sì.»
«Chiamalo con il suo nome, allora.»
Raphael era spaventato. Ma teneva duro: «Il messaggero…»
«Ecco, bravo.»
«…è un regalo per tua madre.»
Un’uscita così inattesa, che lo stesso Raphael rimase pietrificato: le sue palpebre si erano incollate alle orbite, il volto sembrava di cera.
Franz, dal canto suo, non riusciva quasi a respirare. Ma non c’era tempo per farsi prendere dal panico. Toccava a lui mettere in piedi la storia. Era la sua specialità. Strinse gli occhi, mentre il suo cervello crepitava nello sforzo di tirar fuori qualcosa di spendibile dall’esile spunto che gli aveva fornito Raphael.
Ma non era in difficoltà.
Anzi si stava perfino divertendo.
Pochi respiri, e la storia era pronta.

9 pensieri su “Il messaggero – Il risveglio, Parte I

  1. Eccellente il tono e lo stile narrativo in un crescendo di incertezze e di pericoli per i due gemelli e di ira nascosta in Serena. fino al punto conclusivo della puntat che ci lascia con la curiosità di conoscere cosa Franz racconterà.
    Un unico appunto: i dialoghi. In certi passi distinguere le voci che parlano si fa fatica. Si intuisce ma non sono chiare a chi attribuire le parole.

    Piace a 1 persona

    • Grazie per i complimenti e per il suggerimento. Sto rileggendo per vedere se in alcuni punti si può chiarire chi sia a parlare senza rompere il ritmo del botta e risposta. Sulla distinzione tra Franz e Raphael un po’ di ambiguità è voluta, per motivi ai quali accennrò più avanti, ma se non è chiaro quando sia Serena a parlare allora ho sbagliato. Grazie ancora

      Piace a 1 persona

    • Riletto, devo ammettere che alcuni passaggi sono un po’ difficili da districare. Ho mosso qualcosa, ma fin dall’inizio ho scelto di tener dietro soprattutto al ritmo dei dialoghi e non ne la sento di appesantire con troppi disse Franz, disse Serena eccetera. Spero che chi legge il post mi perdonerà. Ti sono in ogni caso grato per la puntualità e la competenza delle tue osservazioni, che mi danno l’opportunità di chiarire aspetti che mi erano sfuggiti in fase di revisione.

      "Mi piace"

Lascia un commento