Il messaggero – Nuvole, Parte II

Non potevamo credere di avere a che fare con due idioti del genere. Tentavano di ingannarci con un trucco così infantile, che avevamo smesso di cascarci già all’età di quattro anni.
Ma non erano un po’ troppo convincenti? Masala sgranava gli occhi e corrugava la fronte come se stesse per rendere l’anima, mentre Harro riusciva a mostrarsi sconvolto anche se metà della sua faccia era artificiale. Entrambi parevano sul punto di bagnarsi i calzoni. Cominciavamo a stare un po’ in ansia. Non potevamo permetterci di cadere nel tranello e voltarci verso il punto che indicava Harro, con i disertori bisognava sempre andarci cauti, ma la tentazione era quasi irresistibile.
«Facciamo lo scambio» disse Masala, senza scollare gli occhi da quello che vedeva dietro di noi.
«Prima la storia.»
Harro era ritornato sul ciglio della piattaforma. Si fermò a gettare un’ultima occhiata alla fonte del suo terrore, poi rotolò via lungo il declivio e scomparve tra le macerie
«Datemi la merce, vi prego» disse Masala. Nella sua voce si percepiva una rabbia crescente. «Non capite che ne va della mia vita?»
Faceva sempre più fatica a restare. Le sue gambe era come se si muovessero da sole, trascinandolo verso il declivio. Poi si riscosse con un fremito, prese lo slancio e si scagliò contro Raphael. Ma le braccia estensibili gli impedivano di far altro che saltellare come un coniglio. Franz ebbe tutto il tempo di raccogliere e di vagliare con attenzione una dozzina di calcinacci appuntiti e di colpirlo più volte alle spalle, alla fronte e al petto, prima che fosse arrivato a metà via.
Masala gridava dal dolore a ogni colpo subito, finché non inciampò e cadde in avanti, battendo la fronte su una sporgenza. Franz continuò a tempestarlo, e ora si mise anche Raphael, con altrettanta violenza. Masala rimase accovacciato per alcuni respiri, la schiena che sussultava a ogni colpo, il sangue che colava dalle tempie, poi indietreggiò carponi, spargendo gocce di sangue al suolo. La sua discesa dal declivio fu rovinosa. Vedemmo distintamente la gamba destra piegarsi per il verso sbagliato all’altezza di una rientranza.
«Un cliente in meno» disse Raphael.
Franz si strinse nelle spalle. «E anche un disertore in meno. Quanto credi che duri, con le braccia bloccate e una gamba rotta?»
«Ma cosa hanno visto che li ha fatti scappare in quel modo?»
Guardavamo in alto, alla ricerca di quello che indicava Harro. Ma sopra la nostra testa c’erano solo travi spolpate e frattaglie di scale e solai e un cielo tempestoso che si andava lentamente ottenebrando. Nessuna minaccia, concreta o illusoria, animava il cadavere decomposto del casamento.
«Non vedo proprio niente.»
«Lassù!»
Franz indicava l’incrocio tra un pilastro e una pensilina diroccata, dove sventolava una sorta di drappo. Occorreva una vista molto acuta, o un paio di occhi telescopici (o forse solo una fervida immaginazione), per riconoscere un uomo in quello spicchio d’ombra: i piedi penzolanti nel vuoto e le braccia spiegate come ali davano piuttosto l’idea di un grosso uccello che avesse appena spiccato il volo. Ricordiamo con molta precisione quel momento: la volta di nuvole che incombeva su Kelidia era percorsa da strie rosse che si aggrovigliavano in ampi vortici e si fondevano a ovest in una lucida parete di rame, quasi una ferita sanguinosa nell’aspro tegumento della burrasca; le travi, nere in controluce, assomigliavano a picche scagliate in segno di sfida contro questa muraglia d’acqua, ed era come se proiettassero l’uomo agganciato al loro ventre, indissolubilmente legato alla loro sfida ultraterrena dalla condanna dei propri simili, verso sfere più pure e profonde.
Restammo a fissare l’impiccato per chi sa quanto tempo. Poi, senza scambiarci una parola, incominciammo a scalare il casamento. Solo quando arrivammo all’altezza del quinto piano, ci rendemmo conto del rischio che stavamo correndo. Se in pieno giorno Sendero era pericolosa, di notte era da evitare a ogni costo. Oltre alle mille insidie nascoste tra le macerie, le buche, gli spuntoni, i dirupi, gli architravi cedevoli e via dicendo, c’erano da scansare i disertori, che spesso si acquattavano nel buio in cerca di preda, e soprattutto gli Storti, che facevano paura perfino alle bande. E anche se in quel punto eravamo lontani dalle zone a più alto rischio, come Colle delle Falene e il Blocco Dodici, anche se la via per Ponte Arco era breve e agevole, ritenevamo lo stesso una pessima idea trovarsi nei paraggi dopo l’imbrunire.
Scossi da questo pensiero, turbati dalla tempestiva apparizione dei primi fuochi azzurri alle finestre del Blocco Dodici, ci fermammo su una piattaforma semi stabile, forse il rimasuglio di un terrazzo o di un ballatoio. Uno sveglio, o anche solo un idiota con un po’ di buon senso, a quel punto avrebbe ripreso la via di casa. Solo che c’era l’impiccato, pochi cubiti più in alto, a sventolare nella brezza, e tutti quegli accidenti di colori che svaporavano sul ventre delle nuvole, e perfino un raggio di sole, timido ed evanescente, che tagliava di sbieco il cadavere, alonandolo d’azzurro.
Come potevamo dire no a tutto questo?
«Chi lo avrà appeso lassù?»
«Una banda, di sicuro. Saranno occorse almeno tre persone per issarlo cosi in alto.»
«Ecco perché quei due se la sono fatta addosso.»
«Hanno paura che i boia siano ancora in giro. O che tornino a recuperare il cadavere.»
«Non lo sanno che le bande non tornano mai a recuperare i cadaveri?»
«Anche perché di solito bastano poche ore perché non ci sia più nessun cadavere da recuperare.»
Riprendemmo la salita. Non era certo la prima volta che vedevamo un impiccato: nelle bande le frequenti contese finivano sempre con una o più impiccagioni. Ma questo che avevamo davanti era uno strano impiccato: piuttosto che penzolare, se ne stava dritto e immobile, nonostante il vento che soffiava a quell’altezza, e solo le gambe sbatacchiavano un po’ sulle travi. E quelle braccia così larghe?
Mentre scalavamo l’ultimo pilastro che ci separava dalla forca, cominciammo a capire. Il condannato non era stato appeso per il collo, ma legato per le braccia a una trave orizzontale. E la sua figura appariva così strana perché gli aguzzini si erano accaniti su di lui, prima di metterlo dov’era. Il volto era gonfio e scomposto, le braccia e le gambe sembrava che non avessero più un osso integro, i piedi erano girati al contrario. Ci scambiammo uno sguardo perplesso. Non succedeva spesso che i membri delle bande si lasciassero andare a simili efferatezze. Non che mancasse loro lo stomaco, ma era un enorme spreco di tempo e di energie. E poi perché cosi in alto e cosi lontano da Colle delle Falene? Piuttosto che l’esecuzione di un nemico o di un traditore, sembrava una specie di rituale, come se il condannato si portasse dietro una spaventosa maledizione che gli aguzzini avevano cercato disperatamente di stornare.
Eravamo arrivati ai piedi del cadavere. Affascinati e pieni di disgusto, consideravamo le membra scomposte, ricoperte da un sottile strato di ghiaccio, che il vento svaporava in una nebbia biancastra. La pelle, gli abiti, i capelli apparivano di un bianco perlaceo, e perfino il sangue fuoriuscito copiosamente dalle innumerevoli lacerazioni non era rosso ma rosa. Ora si vedevano con chiarezza le spesse corde che allargavano le braccia in quella cupa parodia d’uccello, il lungo spuntone metallico che trafiggeva l’addome dalle reni ai polmoni.
«L’avrà combinata grossa.»
«Mai visto un impiccato così.»
«Non è un impiccato. Non s’impicca così la gente. Se vuoi impiccare qualcuno gli metti una corda al collo, non lo pianti su un pezzo di ferro e gli leghi le braccia per mantenerlo dritto.»
«Chi sa in che guaio si è cacciato?»
«Uno grosso. Ti ricordi quel tizio, l’anno scorso, quello che ha cercato di avvelenare Fouler il Gatto? Anche lui era ridotto male. Ma poi l’hanno impiccato e basta.»
«Andiamocene. Quassù fa troppo freddo.»
Iniziammo a calarci dalla pensilina, badando a non scivolare sulle pozzanghere ghiacciate che ne circondavano il ciglio; ma non arrivammo né meno a toccare il pilastro inferiore. Mezzo respiro, ed eravamo di nuovo ai piedi del cadavere, gli occhi sgranati per la sorpresa.
«Come può essere?»
«L’hai visto anche tu? Non dirmi che non l’hai visto, perché so che l’hai visto.»
«Ma come può essere?»
Trattenevamo il fiato. Il cadavere era così freddo e rigido, così inequivocabilmente morto, che cominciavamo a sospettare di aver sognato. Poi successe ancora. Appena, quasi impercettibilmente. Ma non potevamo sbagliarci.
Si era mosso.
«È ancora vivo.»
«Non può essere vivo. È congelato. E ha tutte le ossa rotte. E hai visto quanto sangue ha perso?»
«Ma è vivo.»
Esploravamo gli occhi aperti, le iridi e le pupille semi cancellate dal ghiaccio. Le ciglia tremavano. La testa ebbe un sussulto, mentre la bocca si apriva leggermente.
«È ancora vivo.»
«Non riesco a crederci.»
Solo allora la nostra attenzione si appuntò sugli abiti del moribondo. E ci rendemmo conto che indossava degli strani abiti, per essere un disertore. I disertori, anche i capi delle bande più numerose, andavano tutti in giro con la stessa tenuta: un lacero rimasuglio di uniforme militare rappezzata con bandiere e tende da campo e rinforzata con pezzi di lamiera, fondi di padella e coperchi di pentola. Quel corpo disfatto era invece inguainato in una tuta nera (sotto lo strato di ghiaccio) e aderente, di tessuto elastico, sulla quale era più volte stampigliato un segno che non aveva niente a che vedere con i gradi militari e che noi riconoscemmo subito. Due triangoli opposti, originariamente rossi, i vertici dei quali si toccavano a disegnare una specie di clessidra.
Anche a questo non riuscivamo a credere.
«Un messaggero!»
«Un autentico messaggero!»
«Ma è assurdo!»
«Eppure lo vedi, no?»
«È assurdo lo stesso.»
«Bisogna salvarlo.»
«Eh?»
«Non possiamo lasciarlo qui a morire!»
«Sei uscito di senno? I disertori che lo hanno messo quassù lo sai cosa ci fanno, se si accorgono che tentiamo di salvarlo?»
«Ma è quasi notte. Chi vuoi che ci veda a quest’ora?»
«E cosa vorresti farci, me lo spieghi? Anche se riuscissimo a tirarlo giù e a portarlo fino a Kelidia, morirebbe lo stesso, nell’arco di pochissimo tempo.»
«Ma è un messaggero.»
«E allora?»
«Ci darà notizie della guerra.»
«Morirà.»
«E forse anche di Carol.»
«Morirà!»
«Ma se riuscissimo a parlare con lui prima che muoia…»
«…potremmo venderci le sue storie.»
«E lo sai quanto ricaveremmo dalle storie di un messaggero? Solo perché sono le storie di un messaggero?»
«Ma se è un messaggero, perché l’hanno appeso quassù a morire?»
«Non lo so.»
«Voglio dire, cosa può aver fatto un messaggero per meritarsi un simile trattamento?»
Il cadavere, o meglio, il quasi cadavere, si mosse ancora. La testa si voltò leggermente verso Franz; la bocca dapprima si chiuse, poi tornò ad aprirsi; le labbra si arricciarono e la lingua batté contro i denti. Stava parlando.
«Vengo da lontano…» cominciò lui.
«…e porto nuove» finimmo noi.
Eravamo sempre più sbalorditi. Ma ora non c’era più nessun dubbio: «È il codice dei messaggeri. È proprio un messaggero.»
«Domandagli qualcosa. Fatti dire qualcosa.»
«Se è quasi morto.»
«E allora?»
«Dobbiamo tirarlo giù.»
«E rimetterlo in sesto.»
«Abbiamo bisogno di aiuto.»

23 pensieri su “Il messaggero – Nuvole, Parte II

  1. Sei riuscito a creare un bel clima di suspense che merita la lettura del seguito. Dialoghi concisi ma estremamente immediati che danno tono alla narrazione. Aggiungi al climax dei luoghi un’aria, un mix di contrastanti emozioni come quella dei due ragazzi che combattuti tra curiosità, prudenza e senso di appartenenza vogliono conoscere e sentire.
    Aspetto la prossima puntata con con molta curiosità.

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  2. Bello. Forse te l’avevo già scritto o forse l’ho solo pensato. Tuttavia, per quello che può valere e per quel poco che ne capisco, i dialoghi dei tuoi racconti sono decisamente azzeccati, restituiscono sempre l’urgenza delle situazione in cui i personaggi sono stati catapultati.

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    • Grazie! Sono davvero contento della tua opinione (che non credo mi avessi già scritto), perché i dialoghi più di ogni altra forma narrativa mi mettono in difficoltà e ci lavoro molto per renderli accettabili. Soprattutto ne Il messaggero, dove la narrazione in prima plurale obbliga quasi a privilegiare il dialogo.

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